PPP

1/4/2010 (7:47)
– LA POLEMICA

Pasolini, è ora
di seppellire il complotto
Pier Paolo Pasolini
Dietro
le speculazioni sul delitto politico la resistenza della sinistra a
accettare la particolare omosessualità dello scrittore
MARCO BELPOLITI

Forse è venuto il tempo di seppellire il corpo insepolto di Pasolini. I maestri si mangiano in salsa piccante, dice il Corvo in Uccellacci e uccellini,
rivolto a Ninetto e a Totò. Dimenticare Pasolini, per ricordarlo
davvero. Forse si può partire da qui, e la richiesta di riaprire le
indagini sulla sua morte, che contiene ancora molti punti oscuri,
potrebbe essere davvero l’atto finale per fare finalmente i conti con
lui.

Uscendo così dalla cronaca, anche giudiziaria, per entrare finalmente nella storia.

Walter
Veltroni ha indirizzato una lettera al ministro Alfano, per chiedere
una nuova istruttoria. Carla Benedetti ha scritto sull’Espresso
un articolo per ripetere che il delitto Pasolini è legato a un capitolo
scomparso di Petrolio, il suo romanzo postumo, uscito nel 1992, «Lampi
sull’Eni». Il poeta avrebbe scoperto il legame tra la morte di Mattei,
presidente dell’Eni, e la figura di Eugenio Cefis, capo della
Montedison, personaggio oscuro e potente. Un libro, Profondo nero (Chiarelettere), di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, sostiene la medesima tesi. Tutto ruota intorno a un libro scomparso, Questo è Cefis.
L’altra faccia dell’onorato presidente, edito da Ami a Milano nel 1972.
Il libro è stato avvistato da Carla Benedetti in una bacheca della
Mostra del Libro Antico promossa a Milano dal senatore Marcello
Dell’Utri, intimo di Silvio Berlusconi, che qualche settimana prima
aveva dichiarato di essere in possesso del capitolo rubato (si dice)
dalla casa di Pasolini dopo la sua morte; la medesima sorte subita dal
libro su Cefis, scomparso dalla circolazione dopo la pubblicazione.
Ieri, di nuovo, Carlo Lucarelli, scrittore di gialli e studioso di
delitti oscuri, ha ribadito sulle pagine della Repubblica la
tesi del delitto politico, maturato nel clima stragista e di violenza
degli anni Settanta, anche se poi, alla fine dell’articolo, affermava di
non sapere con certezza come siano andate le cose.

Cosa sapeva davvero Pasolini? Come ha mostrato Silvia De Laude nelle note dell’edizione economica di Petrolio
– apparsa nel 2005, ignorata da quasi tutti gli scriventi -, i
documenti, gli articoli, i libri a cui si è ispirato Pasolini per
scrivere il suo romanzo postumo non sono altro che ritagli di giornale,
dell’Espresso in particolare, o provengono dal libro su Cefis,
opera di un sedicente Giorgio Steimetz, che gli fu fotocopiato da uno
psicoanalista milanese, Elvio Fachinelli, animatore della rivista L’Erba Voglio.
Fachinelli aveva fornito vari testi a Pasolini che ora si trovano
conservati in una cartellina di lavoro, insieme al dattiloscritto di Petrolio,
al Gabinetto Vieusseux di Firenze. Si tratta perciò di materiale già
noto, citato anche da altri, pubblicato sui giornali, non di rivelazioni
segrete, su cui lo scrittore ha intessuto la sua complessa trama
narrativa che, per quanto realistica, sconfina nella particolare
visionarietà che possiedono le sue pagine, una visionarietà più vera del
vero. Tutto questo sarebbe il materiale che giustifica il delitto del
più famoso intellettuale italiano?

La risposta è no. In realtà
l’articolo della Benedetti funziona come un sintomo, a sua volta
veritiero, di un problema rimosso. Lo dice con evidenza la chiusa stessa
del suo pezzo: «Non ci sarà pace finché il mondo resterà così fuori dai
suoi cardini, con i colpevoli impuniti e le storie letterarie che
raccontano di Pasolini ucciso mentre tentava di violentare un ragazzo».
La vera omissione è proprio quella: non accettare il contesto e la
situazione in cui Pasolini si è trovato. Non accettare la sua attrazione
per i ragazzi eterosessuali. Questo è il vero problema su cui nessuno, o
quasi, si misura, questo lo scandalo. L’omosessualità di Pasolini
costituisce la radice vera della sua lettura della società italiana,
l’elemento estetico, su cui egli ha fondato la critica della società dei
consumi. Le lucciole, scomparse per via dell’inquinamento di fiumi e
rogge, non sono solo la metafora della modernizzazione senza sviluppo,
ma anche della scomparsa dei ragazzi eterosessuali disposti all’incontro
sessuale con lui. Le lucciole sono i ragazzi stessi.

In un libro, Breve vita di Pasolini
(Guanda), il cugino di Pier Paolo, Nico Naldini, ha raccontato cosa
potrebbe essere successo la notte in cui fu ucciso. La trascorse al
ristorante con Ninetto e sua moglie; poi incontrò Pino Pelosi che gli
rammentava le fisionomie delle sue amicizie borgatare. Questo accese il
desiderio: «Se il desiderio è solo libidine, esige un rapido
appagamento. Ma se esso si allunga in aspettative voluttuose e se
l’immaginazione è colpita dal ritorno del “sopravvissuto”, gli atti che
si sono succeduti in quella sera trovano una collocazione». I due
siedono al ristorante. Pasolini comincia a far domande. Si sente senza
dubbio attratto e questo «gli fa perdere il senso del pericolo
proveniente da una generazione che si è smarrita nei confini tra il bene
e il male».

Nell’auto avviene il primo scambio sessuale. In
quella sera «la disponibilità del ragazzo è fatale per Pasolini»; l’ha
sentita probabilmente come un’apertura a un altro genere di complicità, e
proprio questo ha spinto l’uomo a compiere un gesto inequivocabile il
quale ha indotto nel ragazzo un elemento di terrore, «come una
rivelazione implicita o l’atto offensivo di una supposizione», scrive
Naldini. Questa è la situazione «in cui si accetta il proprio destino o
lo si rifiuta; ma c’è una sospensione tra le due cose, la violenza
diventa tanto maggiore». In Pelosi si scatena una violenza inaudita: non
solo violenza contro l’incubo dell’altro, ma «pura hybris di fuggire da
se stesso».

Una visione, non una certezza processuale. Ma cosa
può fare un poeta, uno scrittore, se non muoversi tra le visioni? Questo
era il metodo stesso di Pasolini. La sorpresa è dunque scoprire che non
solo la sua particolare omosessualità, la predilezione per i giovani
etero, venga rimossa dalla sinistra, ma che la sua lezione poetica e
intellettuale sia disattesa da seguaci e difensori. Il delitto Pasolini è
un delitto politico non perché operato per far tacere uno che «sapeva»
la verità su un attentato o una strage, ma perché è stato ucciso un
poeta che diceva verità scomode, uno che praticava lo scandalo di
contraddirsi, che non scopriva segreti occulti, ma che rivelava tutto
quello che era già evidente, e che nessuno voleva davvero vedere: «Lo
scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro di te; con te
nel cuore, / in luce, contro di te nelle buie viscere».

Lo scrittore e regista omosessuale ucciso nel 1975 continua a dividere gli intellettuali italiani
MARTONE, BELPOLITI

Una nuova inchiesta potrebbe aiutare tutti a conoscere la verità
MARIO MARTONE
Caro direttore,
ho
letto con rammarico il pezzo che Marco Belpoliti ha dedicato sulla
Stampa agli sforzi di quanti stanno cercando di far riaprire il processo
per la morte di Pasolini. Rammarico per l’impossibilità che persiste in
Italia di trovarsi d’accordo su punti essenziali della vita civile, una
frantumazione che rende via via sempre più faticoso il procedere delle
idee e dell’agire politico. La posizione di Belpoliti, la sua idea sul
perché Pasolini sia stato assassinato è non solo legittima, ma benissimo
espressa ed anche profonda: riprende quella, nota da sempre, di Nico
Naldini, che da poeta creò uno scenario di grandissima verosimiglianza,
immaginando che tutto andasse spiegato esclusivamente all’interno della
dinamica omosessuale e del rapporto di Pasolini con i ragazzi. Ma ciò
che davvero non si spiega è come Belpoliti possa pensare che la
verosimiglianza di questo scenario possa essere sfuggita a persone come
Laura Betti o Sergio Citti, che ho conosciuto bene (di Citti ho filmato
la testimonianza raccolta dall’avvocato Calvi), e che si rivolterebbero
nella tomba a sentirsi accusati di «voler rimuovere la particolare
omosessualità di Pasolini».
Betti e Citti erano convintissimi che il
delitto di Pasolini avesse una matrice politica, e la loro posizione,
allo stato dei fatti, resta profonda e verosimile quanto quella di Nico
Naldini: è un’ipotesi. Infatti, come scrive Belpoliti, «che nel delitto
di Pasolini vi siano molti punti oscuri è senza dubbio vero. Che le
indagini non furono condotte in modo scrupolose è altrettanto vero, ed è
anche possibile che con gli strumenti scientifici attuali si sarebbero
chiariti molti punti oscuri». Ecco tutto. Non c’è da contrapporre
nessuna visione, i due scenari sono perfettamente integrabili, ed è
proprio la verosimiglianza dello scenario omosessuale che rende
verosimile lo scenario politico: chi uccide segretamente lo fa, come è
ovvio, tentando di creare scenari verosimili.
La cosa che dovrebbe
essere a cuore di noi tutti è che la verosimiglianza cessi di essere
tale e diventi verità. Ora, per carità, so bene che una verità
processuale non è tutta la verità, e che la verità in quanto tale forse
nemmeno esiste, e che nella nostra Italia bizantina possiamo scavare
molto a fondo nei termini e nei distinguo, ma insomma, se è palese, come
pare proprio che sia, che ad assassinare Pasolini siano stati in tanti e
non il solo Pelosi, non sarà legittimo desiderare di sapere questi
altri chi erano? E non si potrebbe per una volta essere uniti e
determinati come società «intellettuale» nel desiderare che la giustizia
faccia finalmente il suo corso? Se ad uccidere Pasolini sia stato un
branco di ragazzi presi dalla furia o dei picchiatori fascisti o degli
agenti segreti, questo lo si vedrà. Intanto ci si potrebbe accontentare
di una giustizia che indaghi e che magari faccia affiorare dei nomi e
delle responsabilità. Cordiali saluti.

Basta con l’idea dei complotti, mangiamo PPP in salsa piccante
MARCO BELPOLITI
Caro Martone,
non
sono contro la riapertura delle indagini sul delitto di Pasolini; mi
sono dichiarato scettico riguardo l’ipotesi che il poeta sia stato
eliminato perché sapeva qualcosa di più di altri circa il delitto-Mattei
e le stragi degli anni Settanta. Le fonti di Petrolio, romanzo
incompiuto in cui tutto questo sarebbero svelato, sono ritagli di
giornale, servizi de L’Espresso, quindi ampliamente note, e
pure riportate in libri che circolavano all’epoca, come Silvia De Laude
ha mostrato cinque anni fa. Sul sito web Nazione indiana ne ho parlato
in modo diffuso, e lì ti rimando. Quello su cui dissento è invece la
tesi complottista per cui esiste sempre un quid che la verità
giudiziaria non riesce a chiarire, così com’è accaduto per altri
avvenimenti degli anni Settanta, a partire dalla bombe di Piazza Fontana
sino ad arrivare al sequestro di Moro. Credo sia venuta l’ora di
chiudere con quel decennio di cui Pasolini e Aldo Moro, forse non a
caso, sono i due corpi simbolo; e dare loro una degna sepoltura, cosa
che nessuna inchiesta giudiziaria riuscirà mai, credo, a fare. La mia è
una posizione politica, e non ha nulla a che spartire con le inchieste
degli investigatori di polizia – le si faccia se necessario -, ma con il
modo di ragionare di molti nella sinistra italiana. È ora di andare
oltre un decennio che non finisce di finire nella testa di tanti, il che
è un modo per continuare a restare legati al passato, quando invece la
discussione, anche a partire da Pasolini, dovrebbe procedere. Ad
esempio, sugli anni Ottanta, vero snodo del nostro presente.
La mia
modesta proposta è di fare con Pasolini come lui ha fatto con chi l’ha
preceduto: mangiarcelo in salsa piccante. Nutrirci di lui e digerirlo.
Destino che spetta solo ai veri maestri. E così superare finalmente dal
«complesso-Pasolini» che attanaglia molti in Italia, per parlare ancora
di Pasolini, naturalmente. La discussione sull’ispirazione estetica e
omosessuale della sua visione della mutazione antropologica non è mai
stata fatta. Solo Sciascia ci ha provato, ma senza quella libertà di
pensiero e di parola che sarebbe necessaria.
Il compito degli
scrittori, dei registi, dei saggisti, credo, non sia solo quello di
apporre una firma su un appello, quanto piuttosto di produrre delle
visioni, così come Pasolini ha fatto con Petrolio, che ci illuminò sulla
realtà più ancora delle verità di tribunali o poliziotti. Così è il
libro di Nico Naldini: una visione problematica di un delitto sessuale
che scava nel profondo di una passione, e ci dice qualcosa su noi
stessi, cosa che nessuna sentenza può fare. La passione della verità, in
cui Pasolini era versato, è questa, e non tanto e non solo quella di
chiedere ad alta voce giustizia, cosa che spetta a tutti. Un
intellettuale, un poeta, un regista, si trova in una posizione davvero
scomoda, perché non è solo un cittadino come gli altri, con doveri e
diritti, ma uno che deve fare uno scatto laterale, individuare più a
fondo le cause del bene e del male, e raccontarle in una forma non
banale, in forma letteraria, cinematografica, artistica. La ricerca
della verità è questa, e a essa sarebbe bene che ci attenessimo noi
tutti che facciamo questo mestiere. A ciascuno il suo.
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La Stampa

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